Se la pandemia da COVID 19 è terminata, gli squarci che ha aperto ci mostrano ancora, forti, le contraddizioni sociali che non possiamo più ignorare.La violenza di genere è ancora invisibile agli occhi dei più, molto spesso nascosta tra quelle mura di casa diventate ancora più pericolose della minaccia del virus.E il Covid 19, cosi come il dispiegarsi delle conseguenze socio-economiche della crisi innescata dall’emergenza sanitaria, non hanno fatto altro che aggravare le discriminazioni di genere di vecchia data, esponendo donne e persone LGBTQIA+ al rischio di comportamenti violenti. Da inizio anno, in Italia, sono già 104 i femminicidi, 3 i transcidi. Donne che vengono picchiate, brutalizzate, stuprate, bruciate e chiuse in casa: tutte morte per lo stesso motivo. Ogni donna che sopravvive alla violenza, che ne porta cicatrici visibili o meno, ogni donna che passeggia da sola per strada e riceve una molestia verbale, ogni donna che viene insultata sul luogo di lavoro o allontanata perché sta allattando in pubblico ha subito tutto questo solo perché donna.Tutte le 104 donne ammazzate quest’anno sono morte perché hanno sovvertito le regole alle quali, secondo la logica maschilista, una donna dovrebbe sottostare. Il femminicidio, infatti, non può essere analizzato al pari di un qualunque omicidio, ma ha uno scopo preciso: quello di annullare l’identità della donna. Eppure intorno a queste morti c’è sempre un silenzio assordante, e la narrazione mediatica che viene fatta è spesso lo specchio stesso della società patriarcale: si parla di gelosia, troppo amore, separazione, raptus, delitto passionale. Si cerca nella donna stessa il capro espiatorio. Ma queste donne non muoiono per caso, sono vittime di una cultura in cui tutti quanti cresciamo.Imparare a riconoscere la violenza di genere in tutte le sue forme deve portare ad attivare reti di protezione prima che sia troppo tardi. La violenza, dunque, non è casuale, non capita solo a poche sfortunate. E’ per questo che dobbiamo lottare: perché se toccano una, toccano tutte, anzi, toccano tutta la società. In uno Stato in cui le donne che denunciano non sono tutelate in alcun modo, in cui lo stalking raramente porta a misure cautelari o ad ordinanze restrittive, in cui non si ascoltano le voci delle survivor, in cui il reddito di libertà per le donne che fuoriescono dalla violenza assume una politica ipocrita (i 400 euro al mese per 12 mesi evidentemente non possono garantire autonomia) il femminicidio è a tutti gli effetti un omicidio di Stato. Nel 2022 succede che mentre i casi di discriminazione e di violenza su donne, persone trans, queer e LGBTQIAP*+ continuano ad aumentare, mentre in Parlamento si applaude per l’affossamento del Ddl Zan e non ci aspettiamo certamente che il progetto di legge venga recuperato dal nuovo Governo.La retorica avanzata dalla destra e non solo, che elogia il merito e la performatività di una donna che riesce a ricoprire posizioni apicali non solo è tossica perché ha l’obiettivo di valorizzare uno schema di competizione tra donne, mettendole una contro l’altra, e che esclude le condizioni materiali di partenza, ma è anche essa stessa specchio del patriarcato: una donna vale solo in quanto riesca a “emulare” lo schema prefissato dalla società patriarcale stessa. Dunque ritorniamo sempre al solito problema strutturale: è il radicamento della cultura patriarcale che rende molto più difficile per le donne raggiungere gli stessi obiettivi delle loro controparti maschili, sia nel privato che nel pubblico.Non è un caso che i numeri del lavoro femminile in Italia sono sconfortanti: ancora oggi nel nostro Paese una donna su due non ha un lavoro retribuito. A rilevarlo è il Bilancio di genere 2021 che colloca l’occupazione femminile al 49%.Parallelamente i fondi e i finanziamenti statali ai Centri Anti Violenza sono fermi o in estremo ritardo. Dai dati della rete D.i.Re emerge quanto di tutte le donne che hanno fatto ingressi nei CAV, solo il 37% di loro ha un reddito sicuro e che il 73% degli abuser è italiano (dunque, emerge benissimo che a commettere violenza ci pensiamo benissimo da soli). L’Italia non è un Paese per donne, neanche nel 2022. Anche negli ambiti che possono sembrare più emancipati come scuole e Università, ma anche in molti contesti lavorativi, il radicamento della cultura patriarcale legittima fenomeni di violenza e discriminazione nei confronti delle studentesse (pensiamo ai tantissimi casi di Revenge Porn da parte dei colleghi di corso, o a tutti i commenti sessisti a cui troppo spesso siamo costretti ad assistere da parte dei docenti) e delle lavoratrici (pensiamo al fenomeno del gender pay gap, ovvero la differenza salariale tra uomo e donna a parità di mansione).Allora non è un caso che l’autodeterminazione della donna, dalla libertà sessuale alla possibilità di essere economicamente indipendenti, sia costantemente minacciata dall’avanzare di un fenomeno culturale che ancora oggi, anche se ci può apparire in forme diverse rispetto al passato, è sempre lui: il patriarcato. E per estirparlo, non possiamo che partire proprio dai luoghi in cui i cittadini e le cittadine si formano, come le scuole e università, in cui come soggetto sociale e politico riteniamo doveroso inserire l’educazione sessuale, all’affettività e alla differenza di genere nelle scuole. Vogliamo dei percorsi di studio universitari in cui si ridefinisca il genere da una prospettiva intersezionale, affinché nella nostra idea di Università transfemminista si sviluppi un filone di ricerca socio politico che prenda in considerazione tutti i vari assi di oppressione. Vogliamo un orientamento in ingresso capace di abbattere gli stereotipi di genere, che relegano in partenza le studentesse ai classici lavori “di cura”.Vogliamo un Codice Antimolestie all’interno dell’Uniba e del Poliba perché l’Università deve essere un ambiente sicuro in cui sentirsi tutelate da uno strumento che aiuti le vittime ad affrontare e a denunciare il caso agli organi universitari competenti. Vogliamo avere spazi di confronto con gli studenti e le studentesse, affinché si costruiscano percorsi di formazione tanto nei confronti degli studenti stessi quanto anche nei confronti dei docenti e del personale strutturato di scuole e università attraverso la presenza di figure specializzate. Riteniamo che avere una pubblica amministrazione che sia inclusiva e formata rispetto alle differenze di orientamento e di genere, ma che sia anche di grado di rompere l’omertà che circonda e protegge la violenza, sia un importante fattore per aiutare la vittima a non sentirsi sola e in alcun modo colpevole. È necessario partire da qui per costruire insieme agli studenti e alle studentesse un percorso di rivendicazioni politiche verso l’8 marzo, consapevoli che la lotta non può e non deve arrestarsi mai. I diritti ottenuti fino ad ora non sono bastevoli ed è necessario lottare e agire affinché le istituzioni e la società cambino e assumano con serietà le misure a contrasto della violenza di genere: non ci accontentiamo delle briciole, così come non ci accontentiamo della misera percentuale di donne che riescono a rompere il “soffitto di cristallo”! Vogliamo una società inclusiva e giusta e vogliamo che lo sia realmente per tutte!

Bari, 25 novembre 2022

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Unione degli Studenti Bari

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