L’8 e il 9 marzo saremmo state pronte per scendere in piazza in tutta Italia insieme a Non Una Di Meno, bloccando le lezioni e decidendo noi di cosa parlare, insieme a docenti e ricercatrici e ricercatori, a tutti coloro che a partire dai luoghi della formazione, e poi nei contesti lavorativi, vogliono cambiare la società tutta. A causa dell’attuale situazione emergenziale del paese, abbiamo dovuto rinviare questi momenti, ma restiamo convinti che ogni giorno dobbiamo essere capaci di guardare al mondo con le lenti del cambiamento, e per farlo dobbiamo partire dai nostri banchi e dalle nostre aule.

Coniugare il tema delle differenze di genere ed i diritti negati con i percorsi di formazione impone una riflessione sul ruolo attivo che la conoscenza può avere nel contrasto al sistema capitalista e patriarcale. La prevenzione e il contrasto alla violenza patriarcale, sono questioni che vanno affrontate a partire dal mondo dell’educazione e della formazione scolastica di tutti i gradi, nonché accademica universitaria. Tutte le forme della violenza, dalla molestia alla violenza sessuale, dal femminicidio alla violenza economica, hanno le stesse radici, e sono espressione più o meno estreme del modello di società che conosciamo, che viviamo, che impregna senza sosta alcuna le nostre vite, i luoghi in cui cresciamo, i nostri rapporti umani, sociali, politici. 

Scuole e università sono i primi luoghi in cui non solo le dinamiche sociali di stampo patriarcale trovano piena espressione, ma sono anche gli stessi ambienti in cui queste vengono alimentate e rafforzate. Veniamo formati, umanamente e professionalmente, in contesti scolastici e accademici che contribuiscono nel mantenere inalterate le ingiustizie.  

Le disuguaglianze di genere all’interno del mondo della formazione emergono su vari livelli: da problema strutturale all’interno della nostra società, si radicano nel sistema formativo stesso e contaminano tutta la filiera formazione-lavoro diventando elemento intrinseco alla stessa idea di formazione nell’attuale modello.

Ogni giorno nelle nostre scuole studiamo da libri di testo pervasi da visioni sessiste, o escludenti di grandi profili di donne che hanno avuto un peso nella storia, nella scienza o nell’arte. Raramente i programmi didattici si soffermano sul ruolo dei movimenti femministi nel raggiungimento dei diritti civili, quasi mai si studia o si discute delle condizioni e delle conquiste delle donne, delle disuguaglianze tutt’ora esistenti.

Non è solo di una questione di nozioni, o di un’analisi mancata di alcuni processi storici: la formazione scolastica non consente in alcun modo un cambio di passo rispetto ai fenomeni di disuguaglianza sistemica nella società, né per chi è soggetto subalterno, né per chi riproduce modelli maschilisti e violenti. Le scuole e le università, il cui ruolo è quello di formazione della cittadinanza, devono fornire gli strumenti per costruire un cambiamento dei modelli culturali attuali. Un cambiamento che deve partire anche dall’istituzione di programmi di educazione all’affettività e sessuale in tutte le scuole a partire dai primi anni, complessive di tutti gli aspetti riguardanti la sessualità, le differenze, liberi da bigottismi, giudizi e pregiudizi, liberi dal patriarcato ma soprattutto superando la visione sessista che vede una netta subordinazione della donna all’uomo nei rapporti sociali, qualsiasi essi siano.

Non basta però intervenire sulla didattica: cambiare le scuole e le università significa rivendicare servizi, significa riconoscere che nei luoghi in cui siamo formati, plasmati, si debba contrastare la violenza di genere con qualsiasi strumento. Scuole e università sono luoghi in cui la violenza assume diverse forme, ed in cui è necessaria una forte presa di posizione: l’accordo tra centri-antiviolenza e enti scolastici/universitari è qualcosa che può permettere a tantissime studentesse di affrontare o denunciare episodi di molestie e di violenze che altrimenti passerebbero inosservati. Ne è un esempio l’episodio di violenza sessuale a Monza ai danni di quattro studentesse in alternanza scuola-lavoro, da parte del responsabile della loro formazione in azienda: denunciare in situazioni di sudditanza psicologica così forte è impossibile senza un’adeguata rete di sostegno. Come UDS da anni chiediamo che si riconoscano nuovi diritti alle studentesse e agli studenti come quello all’assistenza psicologica o alla presenza obbligatoria di sportelli antiviolenza dentro scuole ed università e venga approvato un Codice Etico per garantire la qualità formativa dei percorsi in alternanza scuola-lavoro. Abbiamo scritto un nuovo Statuto dei diritti che tenga conto della massificazione dell’alternanza scuola-lavoro, ma non solo. La strada è segnata, la politica deve ora dimostrarsi disponibile a cambiare passo per non registrare mai più episodi del genere.

Consentire all’interno delle mura scolastiche o universitarie un approccio non patriarcale alla sessualità, significa garantire che questa venga vissuta senza pressioni sociali o stigma, in maniera sana, attraverso l’attivazione di counseling psicologici e di presidi sanitari che distribuiscano gratuitamente contraccettivi.

Quando si ragiona di contrasto al patriarcato non si può pensare di risolvere un problema strutturale solo con qualche modifica legislativa: serve una vera e propria rivoluzione culturale che inverta il modo con cui si guarda a noi donne e con cui si costruisce un mondo, una scuola, un posto di lavoro a misura di tutte e tutti. Il ripensamento dei luoghi della formazione deve essere strutturale e organico, ed è quanto più necessario se si amplia lo sguardo al tipo di percorso che le studentesse ad oggi affrontano proiettandosi verso il mondo del lavoro.
Portiamo su di noi gli effetti degli ostacoli alla conoscenza, quegli stessi che ci hanno messo ai margini delle ricerche scientifiche e delle grandi scoperte, cancellando i nostri nomi:  il primo dato lampante è quello relativo al fenomeno della pre-canalizzazione scolastica/universitaria, ovvero una mancata promozione dell’insegnamento delle  discipline scientifico-tecnologiche tra bambine e ragazze

L’esclusione femminile da questi ambiti viene spesso giustificata come una naturale inclinazione delle ragazze verso i settori umanistici e di cura, ma di biologico non ha nulla. Si tratta di una conseguenza delle aspettative sociali ancora fortissime rispetto a quello che sia il ruolo tradizionale della donna nella società, alimentato dall’assenza di modelli di riferimento. Già dalle pubblicità dei giocattoli, e per tutto ciò che riguarda la rappresentazione mediatica dell’infanzia e dell’adolescenza, tutte le attività legate alla meccanica, l’ingegneria e l’informatica (dalle macchinine ai videogiochi) vengono identificate come “maschili”, in contrasto con ciò che riguarda la cura dei bambini, degli animali, della casa… Relegati invece alle bambine. Il radicamento della pre-canalizzazione affonda proprio nell’esclusione dalla cultura di massa delle figure femminili che hanno determinato la Storia del nostro Paese, della cultura, del progresso scientifico, e si riflettono poi nel modo in cui il sistema formativo stesso si presenta e stimola in maniera differente ragazzi e ragazze.

 

Senza andare troppo distanti dall’esperienza che in tantissime viviamo quotidianamente fra i banchi di scuola, spesso anche nello svolgimento delle esperienze di alternanza scuola-lavoro si riflettono forme di disuguaglianza di genere nella scelta degli stessi percorsi. La visione di un sapere diviso tra discipline maschili e femminili è ancora stabile, e si palesa nelle percentuali di iscrizioni agli istituti  di differenti indirizzi, laddove nei professionali le studentesse rappresentano quasi il 44% dei neo iscritti, negli istituti tecnici il 31%. Mentre nelle lauree del settore educativo le donne rappresentano il 93,1%.

 

La società ci cresce convincendoci di una netta divisione dei ruoli. Anche nella carriera professionale il ruolo di cura è riprodotto, se non proprio richiesto: per esempio le donne sono destinate a insegnare, preferibilmente ai “più piccoli”, infatti solo il 20% delle laureate ottiene una cattedra come professoressa universitaria, e secondo i dati Onu solo il 28% dei ricercatori in tutto il mondo è donna.

La questione lavorativa, però, non può essere ridotta unicamente alla differenza di sbocchi di carriera: le donne disoccupate sono quasi il doppio della controparte maschile, spesso accettiamo contratti a ribasso, abbandonano o rallentiamo la nostra carriera per occuparci, da sole, della famiglia, persino nella Costituzione la sola figura femminile è riconosciuta come fondamentale all’interno di questa. L’ISTAT ci ha chiaramente detto, nel rapporto 2019 sul lavoro femminile, che il tasso di occupazione tra le madri è del 57% a fronte dell’89,3% dei padri, e la differenza di occupazione tra donne senza figli e madri è del 16% nel Sud Italia. Quando lavoriamo siamo costrette al part time, dove 1,9 milioni un totale di 2,8 milioni di contratti sono di donne, o a vedere una differenza di stipendio almeno del 10% a parità di mansione con un nostro collega uomo: la media della differenza annua lorda tra un lavoratore e una lavoratrice pari grado è di 2700 euro, come se per due o tre mesi lavorassimo gratis!

La disuguaglianza per differenza salariale va di pari passo con lo stato dei servizi di welfare, indispensabili per svincolare la donna dal ruolo di cura materno e domestico più in generale. Le lotte femministe hanno visto le conquiste degli asili nido pubblici, del congedo di maternità, della tutela verso le dimissioni in bianco, ma non è ancora abbastanza. Lo schiacciamento della figura femminile a quei ruoli e la subalternità della donna non sono questioni risolte e vanno affrontate quotidianamente. 

Crediamo sia fondamentale affermare un principio: un modello di welfare improntato sulla cosiddetta protezione delle fasce deboli, così per come è nell’area mediterranea, è un modello di welfare manchevole in molti aspetti ed inefficace rispetto alla complessificazione della società, serve un modello che punti all’autonomia del soggetto e all’autorealizzazione nella vita, nella conoscenza, nel lavoro. Le “quote rosa” e le misure improntate sulla sola uguaglianza formale non sono la soluzione a problemi strutturali e complessi, come quelli che affrontiamo ogni giorno, ma è necessario ripensare a tutto tondo il modello di società che desideriamo. Va innanzitutto riconosciuta la necessità di aprire il mercato del lavoro alle donne anche laddove esiste ancora più reticenza nel farlo, ma soprattutto va riconosciuto che lo strumento del lavoro (stabile e tutelato) è necessario per superare la posizione di subalternità in cui le donne si trovano, e darci la possibilità di non essere dipendenti economicamente da altri, di poterci autodeterminare, di poter intraprendere percorsi di fuoriuscita dalla violenza perché libere da altre forme di ricattabilità.

Pensiamo che per contrastare le disuguaglianze e la violenza di genere sia necessario ricostruire i nessi strutturali che esistono all’interno della società tra la violenza di genere, l’educazione, le disparità materiali e il sistema di disuguaglianze che regge l’intero progetto capitalista.

La battaglia per la parità di genere, dunque, non può essere combattuta in una posizione di difesa dell’esistente, giacché l’esistente ci propone una situazione di inaccettabile ineguaglianza. Deve essere combattuta sul piano dell’attacco ad un sistema economico e sociale diseguale.

E’ necessaria da un lato che la politica valorizzi le differenze e si impegni nell’abbattimento degli stereotipi, dall’altro che intervenga nel creare le possibilità lavorative, economiche e di autodeterminazione per liberare la società tutta dalla gabbia del patriarcato. A partire da un ripensamento della didattica, dell’educazione e della formazione crediamo si possa costruire una società libera dalla violenza, ponendo le basi per un ripensamento delle dinamiche sociali e lavorative. Ci impegniamo e continueremo a farlo affinché scuole e università riconoscano il loro ruolo cruciale in questo processo, partendo dall’apertura di centri antiviolenza e di ascolto in università come sta accadendo all’interno di UniBa e PoliBa, con l’istituzione di percorsi didattici di educazione affettiva e sessuale (come quelli previsti all’interno del ddl contro l’omobitransfobia, purtroppo ancora in discussione da mesi in Consiglio Regionale nonostante le numerose manifestazioni ed iniziative che hanno visto protagonisti gli studenti e le studentesse e che anche noi abbiamo contribuito ad organizzare), sino ad arrivare a finanziamenti sempre maggiori ai centri antiviolenza e a tutte le forme di welfare diretto e indiretto che possano garantire ad ogni soggettività subalterna di vivere la propria vita in maniera dignitosa.

Abbiamo lanciato, come sindacati studenteschi, un appello per un grande percorso di partecipazione – La Città del Futuro – che porterà ad una piattaforma scritta con i giovani e le giovani di questa terra, con i costretti ad emigrare, con gli studenti e le studentesse. Sarà un richiamo alla responsabilità sociale e storica che vogliamo fare ad una politica troppo impegnata a risolvere questioni più o meno cruciali e spesso incapace ad immaginare nuove prospettive per la nostra comunità.

Nella città del futuro che vogliamo non c’è spazio per le disuguaglianze di genere. Pensiamo sia una responsabilità storica quella che ha la politica oggi, così come la hanno tutti i soggetti di rappresentanza sociale, nel prendere una posizione netta e decisa contro qualsiasi forma di discriminazione, consapevoli che la battaglia si gioca su tutti i piani di vita delle donne, e che può essere vinta solo riuscendo a immaginare totalmente una regione e un Paese del futuro nuovi, a misura dei nostri sogni.

 

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