Negli scorsi giorni, la compagnia petrolifera canadese X-Site Energy Service ha diffuso uno sticker raffigurante lo stupro dell’attivista svedese Greta Thunberg.

Un gesto aberrante che fa emergere le radici profondamente aggressive del pensiero di questi soggetti. Dall’inizio del suo attivismo, a Greta sono sempre stati riservati attacchi di natura personale, ritenendola prima incapace di produrre un pensiero proprio, poi definendola “inquietante”, sminuendola nei modi più disparati e sempre ricollegati ad elementi riferiti alla sua identità personale: essere giovane, essere una donna, essere autistica. Greta è una outsider nei canoni del dibattito pubblico profondamente sessista: non si pone come corpo sessualizzato, scatenando come reazione principale l’infantilizzazione, il suo collocamento all’interno di un limbo senza identità e voce politica

Tra gli aspetti più disturbanti di questo ennesimo attacco a Greta vi è il ricorso allo stupro come punizione, come strumento di repressione e controllo di una giovane donna che si è esposta pubblicamente contro il cambiamento climatico e un modello di sviluppo ormai insostenibile. È il mezzo attraverso cui una compagnia petrolifera, controparte diretta di Greta e di movimenti ecologisti come Fridays for Future, vuole mettere a tacere l’attivista svedese. Greta quindi non viene contestata per ciò che dice, ma per ciò che è: una donna, per giunta giovane, che chiede giustizia climatica e sociale. Emerge la dinamica di potere: da un lato un pieno rappresentante dell’establishment, l’azienda per eccellenza che detiene potere economico, controllo sui territori, probabilmente anche forti influenze politiche, dall’altra un’attivista simbolo del desiderio collettivo di una generazione di ribaltare tutto ciò. La cultura patriarcale è presa, non a caso, a pieno servizio del sistema economico di sfruttamento ambientale, in un cerchio di autoalimentazione. 

 

Lo stupro, per questo, non riguarda mai il desiderio sessuale, non ha nulla a che vedere con il piacere, ha invece a che fare con l’assoggettamento, con l’idea che una donna che esce dal tracciato che la società le ha imposto va punita. Nel patriarcato, le donne non sono quasi mai padrone della propria sessualità: essa viene loro sottratta ed utilizzata come oggetto nelle mani di chi detiene il potere. È strumento di controllo negli stupri di guerra, di piacere altrui nel porno mainstream e nei mass media, di assoggettamento nella violenza domestica, come prova di purezza e valore in una società dalla forte matrice cattolica… Questi fili sono ben identificabili quando andiamo ad osservare come il concetto culturale dello stupro si è evoluto (anche nelle leggi nazionali e internazionali) negli ultimi decenni. In Italia, lo stupro fino al 1996 era inquadrato come reato contro la morale pubblica e il buon costume, per poi essere riconosciuto come reato contro la persona. Come fa emergere zeroviolenza.it, quindi, “il bene che si voleva proteggere e tutelare non era tanto la persona quanto il buon costume sociale secondo il quale la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo sessuale”. La normalizzazione di tutto ciò ha un nome: cultura dello stupro. È cultura dello stupro la minaccia di violenza sessuale fatta ad una ragazza come se fosse una battuta goliardica, il riferimento allo stupro come punizione per le esponenti politiche, gli abusi sul posto di lavoro intesi come ordinari. Nella storia, le riforme della legislazione sullo stupro sono state pietre miliari di cambi di rotta della società tutta: al 2020, le richieste che provengono dal movimento femminista in questo senso sono tante, a partire dalla rivendicazione per il modello consensuale. L’impegno di tutte e tutti in questo senso è doveroso, perché ciascuna di noi possa finalmente vivere un po’ più libera.


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