Immaginare una città è un’operazione faticosa e lunga, ma necessaria, specie in un periodo in cui le previsioni sul futuro stentano ad includere scenari positivi.

Le città sono il luogo in cui si intrecciano le grandi trasformazioni del nostro tempo: le conoscenze e competenze presenti le trasformano in uno spazio vivo, fucina ideale per lo sviluppo e per attrarre gli investimenti necessari a far crescere economicamente l’intera area cui ci si riferisce. Ma le città sono anche il luogo in cui si concentrano le contraddizioni più laceranti dell’oggi: sono il luogo della cultura e dell’informazione ed allo stesso tempo delle più drammatiche disuguaglianze sociali. La crisi delle città è la restituzione in chiave geografica delle fratture sociali presenti nel nostro Paese.

Bari è una città ferita e contraddittoria da ben prima del COVID: le origini di queste lacerazioni – sociali, fisiche, economiche e culturali – sono da ricercarsi nei molteplici volti che i blocchi dominanti che si sono susseguiti hanno cucito su una città nella ricerca disperata e costante della propria identità, tra vocazioni cucite e miti legati al ciclo del momento.

La città – sin dal suo sviluppo oltre le mura della città vecchia – è stata teatro di un continuo processo di mercificazione del proprio spazio urbano: ora con Murat ed il Regno di Napoli, ora con le più alte cariche del fascismo, ora con i grandi dirigenti democristiani della macchina statale, ora con i grandi blocchi imprenditoriali dell’edilizia, e non solo.

Le tendenze del capitalismo contemporaneo stanno portando al diffondersi del fenomeno delle cd. città-stato, contenitori che generano e/o capitalizzano importanti flussi economici al di là delle direttrici nazionali, portando città e regioni ad avanzare nelle catene del valore.

Il COVID-19, e soprattutto il primo provvedimento preso per contrastarlo, hanno prodotto l’immagine di città vuote, immobili e silenziose, in cui il tempo si è fermato e ha fermato la vita stessa. Il lockdown ha annullato la diversificazione dei tempi della vita quotidiana e dell’uso dello spazio urbano: tutti gli aspetti della nostra vita sociale quotidiana necessitano di nuove soluzioni, nuovi modelli organizzativi, nuove tecnologie e nuovi strumenti, nuovi modi di pensare.

Re-immaginare lo spazio delle nostre città e la nostra vita sociale è doveroso fin da ora per risolvere i problemi che già in parte oggi affliggono le comunità urbane: la delocalizzazione della produzione, la mobilità e la qualità dell’aria che si respira in spazi così congestionati. Con l’avvento incontrollato del digitale negli ultimi vent’anni, le città europee si stanno svuotando progressivamente dei servizi commerciali e si riempiono sempre più di terziario e cultura adempiendo per lo più alla funzione di scambio ed aggregazione. La città-mercato, per così come è stata immaginata Bari, non esisterà (o forse non esiste già) più e gli spazi urbani dovranno necessariamente essere riorganizzati in risposta alle nuove esigenze delle comunità seguendo le funzioni immaginate in linea con i nuovi sistemi di sviluppo.

“La città maghrebina” (così la definisce, facendo emergere una somiglianza con le città nordafricane, il sociologo Giandomenico Amendola nel suo celebre ‘Sociologia di Bari’ per indicare la distanza sociale che esiste tra il borgo antico e la “città nuova”, separate fisicamente però solo da un grande corso) non avendo grandi tradizioni secolari da vantare dovrebbe disegnare la crescita e lo sviluppo partire dalle opportunità che già contiene: una su tutte la posizione geografica strategica (non solo verso il Mediterraneo ma anche verso il vasto Sud del quale per anni ha tentato di porsi a guida). L’intermediazione e il valore aggiunto dell’intelligenza collettiva come assi potenzialmente generativi di flussi positivi sono, dunque, elementi sui quali investire per non perdere la sfida al futuro – e con il presente – condannando la città di Bari ad un ruolo marginale nel quadrante economico della regione mediterranea.

Muovendosi in questo campo del ragionamento, sono almeno cinque le questioni cruciali da affrontare per la città di Bari: il policentrismo per superare le fratture sociali dettate dall’attuale organizzazione dello spazio urbano; la zona industriale, l’infrastrutturazione sociale e materiale ed il rapporto con la città ed i suoi Atenei; la creazione di una nuova economia urbana a partire dall’organizzazione di un ampio e diffuso tessuto manifatturiero al passo con l’innovazione e l’internazionalizzazione; la creazione di una robusta rete digitale e tecnologica per far entrare la città nel nuovo millennio e migliorare qualità della vita; mettere a frutto la risorsa dal potenziale generativo più grande: i giovani.

È necessario immaginare un modello di sviluppo integrato che faccia camminare insieme innovazione, partecipazione attiva e giustizia sociale. Per fare questo serve un grande slancio culturale ideale e concreto materiale nell’approccio alle politiche urbane (economiche, infrastrutturali, sociologiche, etc.) rispetto a quelle messe in campo finora, rimettendo al centro dell’agire pubblico il rapporto con le Università, i centri di ricerca, il lavoro e i giovani.

La città si riempie di una domanda sempre più sofisticata ma la smart city non è solo un sistema tecnico ma l’insieme delle rivelazioni di menti interconnesse. Dibattere sul futuro della città significa anche dibattere del futuro delle generazioni che la vivono. Fuori dal fuorviante approccio conflittuale tra “giovani vs vecchi” ma ragionando in maniera radicale – nel senso di andare alla radice – sviluppando un modello di governance pubblica per attivare un circolo virtuoso in grado di rispondere, su tutto, alla perdita continua di giovani (non solo quelli “studiati” ma tutti, anche coloro i quali non vedono più al futuro in maniera positiva e pro-attiva) che in soli dieci anni ha prodotto nel Meridione, quindi anche a Bari, una perdita del 2,5% del PIL. Quasi quanto la previsione di crescita generata dal PNRR, nelle ipotesi migliori. La migrazione è in sé un fenomeno connaturato alla natura umana: bisogna però identificarne le cause, affinché sia una scelta libera e non obbligata.

Bari non è San Francisco o Shenzen, e non deve assolutamente ambire ad esserlo scimmiottando questa o quella cd. best practice, ma può essere spazio di sperimentazione di quel sistema a quattro eliche (istituzioni, istruzione&ricerca, lavoro, innovazione sociale) per concentrare valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, sviluppo sostenibile e socialmente desiderabile, innovazione digitale democratica, partecipazione attiva e consapevole della cittadinanza, servizi diffusi ed accessibili in tutte le aree della città. Nei prossimi anni gran parte dei lavori ad oggi esistenti non esisteranno più ed i giovani, se opportunamente inseriti in un ecosistema abilitante, possono sprigionare energie, conoscenze, competenze per dare un nuovo slancio al contesto urbano.

Nella società 4.0/5.0 serve un’alleanza tra intenzioni sostanziali per governare il cambiamento e garantire la coesione sociale: un sistema di scambio continuo e triangolato tra le istituzioni, le realtà sociali e i luoghi della formazione per disegnare le politiche dello sviluppo e rendere le istituzioni piattaforme in/con cui cresce la città. Non basta però analizzare le marginalità ma rendere chi le vive protagonista del processo di crescita: si deve partire dall’ascolto e dall’analisi dei bisogni per immaginare i servizi necessari, le politiche industriali, giovanili, culturali e sociali. Serve rendere Bari un ecosistema abilitante, sensibilizzando e trasformando culturalmente gli operatori economici, gli attori sociali e l’opinione pubblica, creando occasioni di incontro e sperimentazione tra conoscenza, competenza, creatività e capacità di progettazione.

Serve progettare il domani a partire dai problemi e dalle opportunità dell’oggi. Una ventata di freschezza per immaginare una città intraprendente e in grado di trarre il meglio dalle risorse di cui dispone, proprio come i baresi.

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