Nell’ultima settimana, con la pubblicazione di vari report rispetto alla condizione giovanile, uniti a quelli sulla crescita del Paese, e in particolare agli indici di natalità, siamo stati bombardati da letture, analisi e ricette su cosa sia necessario agli under 35.

Un dibattito urgente, ma che spesso tiene poco conto della voce e dei bisogni dei diretti interessati. Essere giovani in Italia nel 2021 significa innanzitutto una cosa: essere, ancora, legati alla propria famiglia d’origine, innanzitutto per status economico. Un’affermazione nata dai dati sul “blocco dell’ascensore sociale” risalenti al 2018, che descrivono i millennials italiani come “la prima generazione dal dopoguerra che vive peggio dei propri genitori”, e confermata dai dati impietosi relativi all’emancipazione abitativa, dove oltre il 50% vive ancora con i genitori, uniti a coloro che devono contare sul sostegno familiare per le spese di affitto o bollette, fino ad arrivare al solo 7% che ha avuto accesso ad un mutuo.

La retorica dei “choosy” e “bamboccioni”, che ci portiamo dietro da decenni come un dato biologico, cerca costantemente conferme negli allarmi sulla scomparsa dei lavoratori stagionali: Federalberghi Puglia, ad esempio, ha scarsissima fiducia nella possibilità che si riusciranno a reperire tutti e 25mila i lavoratori necessari alla stagione estiva nelle strutture di ricezione turistica. Eppure la realtà che viviamo sulla nostra pelle e che leggiamo nei dati (pre Covid) del Consiglio Nazionale dei Giovani è altra. Con una retribuzione media di € 10.400 annui, così come emerso dall’indagine, i Millennials non possono nemmeno definirsi la generazione dei 1000€ al mese. Il 54,2% dei giovani tra i 18 e i 35 anni ha lavorato almeno una volta senza un contratto, solo il 23% con un contratto a tempo indeterminato full time e il 9,5% part time, in media hanno cambiato quasi 5 lavori. A questi si aggiungono le percentuali altissime di giovani che hanno dovuto accettare lavori poveri (sottoinquadrati, con monte ore dichiarato e pagato inferiore o senza retribuzione…), con un’incidenza sulla discontinuità lavorativa.

E se questi elementi non fossero sufficienti a tracciare i margini della precarietà giovanile, su essi si è abbattuta l’emergenza sanitaria: secondo ISTAT, nel 2020 tra i lavoratori atipici di tutte le fasce d’età si sono persi 393mila occupati a tempo determinato e 209mila indipendenti, complessivamente solo nella fascia giovanile il conto è di 444mila unità. Lo sblocco dei licenziamenti, poi, peserà come una seconda ondata su questo. Di contro si continua a legittimare chi in politica dipinge l’instabilità lavorativa come un valore, e dietro una presunta meritocrazia vuole tagliare fuori definitivamente i giovani anche dal settore del pubblico. In particolare, la riforma della Pubblica Amministrazione proposta dal ministro Brunetta, seppur sembra “sventata” per quanto riguarda i suoi aspetti più dannosi, ha espresso questo sentimento politico: in un Paese con l’età media di dipendenti pubblici tra le più alte d’Europa e pochissime risorse a disposizione, si volevano far pesare le esperienze lavorative come discrimine in accesso ai concorsi pubblici. Un ennesimo tentativo di creare conflitto intergenerazionale, tra chi ha lavorato per 10, 20 anni senza veder riconosciuta la propria dignità e chi non può nemmeno immaginare un futuro.

Le prospettive politiche per under 35 non possono guardare, però, al futuro. A 25, 30, 35 anni abbiamo l’età in cui i nostri genitori avevano già stabilito le radici della loro vita. Qualsiasi politica che parli per la nostra generazione deve guardare al presente, alla possibilità che oggi dobbiamo avere di un lavoro sicuro e tutelato, del diritto alla casa, al welfare. Il concetto di stabilità, contrapposto alla precarietà che oggi ci caratterizza, non è un dato storico finito col Novecento, ma un elemento imprescindibile per l’avanzare di tutta la società, che deve trovare nuove basi su cui poggiare. Basi che, evidentemente, non riguardano solo gli under 35: la nostra nuova povertà è solo il segno più contraddittorio delle politiche neoliberiste degli ultimi 15 anni. Il cambiamento che vogliamo, però, è un cambiamento per tutte e tutti.


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