42 anni fa, il 22 maggio del 1978, la 194 diventa a tutti gli effetti legge dello Stato, garantendo alle donne di poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza entro 90 giorni da inizio gestazione, eliminando il reato di aborto dal codice penale.
La legge, frutto di battaglie estenuanti portate avanti dal movimento femminista e dai partiti di sinistra e partito radicale, andava finalmente a regolamentare in maniera sicura la pratica dell’aborto, ormai già tragicamente diffusa illegalmente all’interno del Paese con i cosiddetti aborti “clandestini”, praticati con grucce, ferri, aspirapolverli, che mettevano in pericolo la vita delle donne.

La legge sull’aborto è stata una conquista storica per il Paese intero, con la quale si è segnata la capacità di ribaltare il concetto di maternità come funzione sociale obbligatoria della donna e di liberare i corpi delle donne dalle battaglie politiche di stampo patriarcale. Un tassello fondamentale per l’affermazione dell’autodeterminazione femminile assieme alle leggi per il divorzio, per la parità tra coniugi e alle successive abrogazioni del delitto d’onore e del matrimonio riparatore.

Ma, nonostante siano passati 42 anni, la legge 194 è ancora sotto attacco e soprattutto ancora oggi non è totalmente in grado di garantire il diritto all’aborto.

La stessa legge, infatti, prevede la figura dell’obiettore di coscienza, la possibilità per medici e personale sanitario di astenersi dalla procedura per motivi etici e morali. Questa possibilità di fatto limita il diritto all’aborto in maniera importante, poiché ad oggi il tasso di obiezione sui ginecologi in Italia è del 70% in media, quota che aumenta di anno in anno con punte che sfiorano il 90% in alcune regioni, affermandosi all’86,1% della Regione Puglia.
Nonostante il SSN sia tenuto per legge ad assicurare che l’obiezione di coscienza non limiti l’accesso all’IVG, queste percentuali ci raccontano una realtà ben diversa, poiché non esistono sanzioni alle strutture che non sanno garantire la continuità del servizio, né vengono messe in campo misure di assunzione di personale non obiettore.
A rafforzare la difficoltà di accedere all’aborto è anche il forte stigma sociale che ancora avvolge chi sceglie di non portare avanti la gravidanza. Le logiche patriarcali che ancora infatti predominano all’interno del nostro Paese minano costantemente la sfera dell’autodeterminazione femminile, a volte anche strumentalizzando questioni di salute pubblica come accaduto durante l’emergenza COVID 19 in alcune regioni che hanno sospeso il servizio di IVG per le misure anticontagio.

Questo quadro allarmante della situazione necessita ancora una volta un ragionamento di avanguardia verso il tema dei diritti: vogliamo che il diritto all’aborto venga garantito in ogni struttura pubblica a tutti gli effetti, e che venga implementato il servizio di aborto farmacologico, che ad oggi rappresenta solo il 15% del totale delle IVG. La pratica farmacologica, ormai diffusa in tutta Europa, è più sicura per le donne e meno traumatica, è ormai indicata come preferibile dalla letteratura scientifica ma riscontra una forte resistenza nella sua applicazione, poiché rende l’interruzione volontaria di gravidanza molto più accessibile e meno traumatizzante.
Rivendichiamo, inoltre, il ruolo centrale dell’educazione sessuale e affettiva non solo nel limitare le gravidanze indesiderate (che colpiscono maggiormente le fasce di popolazione con status economico ed di istruzione minore) ma anche nel smantellare la cultura violenta e patriarcale che ancora ad oggi nel nostro paese rende l’accesso all’aborto quasi impossibile.

Basta ai compromessi sui nostri corpi: vogliamo tutto!

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